“La bellezza del sogno – per dirla con il compianto Pierre Soulages – sta nella sua crudeltà”. Attraverso il sogno, secondo il pittore e teorico francese, torturiamo le nostre emozioni, affliggendoci pur quando esso sembra esaudire ogni nostra pulsione, accogliendoci nella pienezza tonda dell’appagamento immaginario (poiché al piacere del sogno subentra immediato il rammarico che il sogno sia soltanto “un sogno”). Franco Carletti ha cristallizzato questo assunto fino a trasformarlo in lessico accordante della propria arte: l’attrazione-repulsione che governa l’irrealtà. E ha trasferito il suo circostante millenario (dai cipressi delle sue iconiche colline senesi fino ai tesori tusci che si immaginano ancora quiescenti nel sottosuolo) nella dimensione di un trasogno lucido, vagheggiato in deliberata coscienza, a tratti consapevole. Ma il suo processo di onirismo non asseconda alcuna presupposta necessità simbolica, non sfocia nel cosiddetto “visionario”: ne resta piuttosto al di qua, nel reale più scandito, nell’idealizzazione più precipua di una tranche de vie costituita dalla sequenza degli attimi irripetibili che accompagnano le nostre esistenze quotidiane: l’incanto di una finestra aperta sui colori della campagna del Chianti o lo scorcio di un’edicola sacra al limitare del sentiero; l’aria arsa eppure brulicante di vita degli uliveti o le distese a maggese nelle pratiche agricole dei coloni; le rovine di un sepolcreto tra il verde dei clivi o il sole nel meriggio dell’estate. Tutto questo è identificato e identificabile nella produzione di Carletti non per una smania didascalica o descrittivista, ma attraverso una palette che è verità, dal colore che diviene narrazione, cronaca, racconto, con il ripartirsi in piani e sequenze dal taglio quasi fotografico, così che l’opera sia ricondotta entro il limes incorporeo dell’immaginazione: il sogno diventa allora consolazione, non più disinganno; una prova ineludibile dell’autenticità sottostante. Nulla allora è più drammaticamente evidente di quell’aere cilestrina, di quella luce acconcia, di quei cieli roteanti di nubi, di quelle stoppie combuste nei campi o di quelle messi dorate in attesa della falce; nulla è più evocativo di quel silenzio all’ombra della pergola, della frescura delle cantine con i tini a riposo, del richiamo della malva che profuma nell’aia. Tutto ciò vive per la facoltà iconografica (che è anche potenza di raffinato accostamento) e per la suggestione compositiva proprie della pittura di Carletti: riusciamo a scorgere il circostante nonostante le palpebre serrate, immaginando, indovinando, intuendo. Semplicemente. Per Carletti, dunque non esiste che la pittura intuitiva, una descrizione di afflato mnemonico. E tutto il suo universo di emozioni addiviene in essa, con i suoi tormenti d’artista, talvolta benevoli e confidenti, talvolta insostenibili e lancinanti. Ma in quella tavolozza, in quella brillantezza di pigmenti che stemperano verso l’orizzonte tragico, in quel frinire di cicale estive, laddove possa apparire fallace lo svelarsi del rapporto tra narrazione e vedutismo, ti accorgi del suo incorrotto modo di fare arte, del riapparire metamorfico di un passaggio interiore che avoca a sé tutta la cifra espressiva, che si rivela asciutta, effettiva, reale. In tanta icasticità si scopre che la pittura di Carletti – per la quale e in ragione della quale egli ha mandato a memoria tutto il secondo Novecento e il colorismo di tradizione – è metafora di una quiete tangibile, dove il mutare dei cicli si radica nella segreta possibilità di recupero del passato, del vissuto emotivo, dello spleen che angustia e conforta a un tempo. Ma si tratta di un evento insidiato continuamente dai cimenti della vita. E non resta che assecondarne il rischio, perché questo venga apotropaicamente bilanciato, annientato, dissolto, allontanato, disinnescando la minaccia del citazionismo. Così, la pittura – che certo potrebbe apparire nel Carletti giunto ora a maturità artistica e cosciente come musa e compagna angelicata – diviene ossessione: nella tela si aprono allora prilli di cadmi e vermigli, le campiture si caligano, dandosi convegno con la volta che ora fatalmente si rabbuia fino a dissolversi lontana. Ecco: dipingere significa per Carletti salvarsi dallo spettro immaginario della congiura del modernismo, rifuggendone il dolore e la gioia talvolta inestricabili l’uno dall’altra. Ma è un riscatto effimero, una protezione transitoria, una salvezza dall’arriére-goût malinconico, ma che pur riecheggia nel modulatissimo canto che è la consapevolezza della sua idea conforme di sogno.
Ma Carletti è anche sperimentatore di lessici. E precipuamente su questo aspetto si vorrebbe focalizzare il contenuto del contributo odierno: in un suo recente ciclo di lavori (In volo sulle lettere di mio padre), opportunamente descritti da Stefania Pieralice e che hanno entusiasmato lettori e fruitori della galassia web, egli ha avviato un’operazione nostalgia, sulla scorta del rinvenimento fortuito di un epistolario d’amore tra i genitori: lettere da e per il fronte, tra Roberto e Livina. Fogli di passaggi struggenti di una passione “altra”, dove lo svelamento di quelle lettere ingiallite dal tempo è espediente per un amarcord attraverso il quale Carletti coinvolge i suoi collezionisti con il candore ruffiano del racconto d’antan, quando il “vestito buono della domenica” identificava la dignità di un intero Paese. Del carteggio tra il soldato in trincea e la promessa sposa, Carletti ne fa un decoupage frammisto a foto, cartoline e reminiscenze familiari, mostrando il come eravamo di un’Italia resiliente, certo assai fragile ma composta e desiderosa di riscatto. E l’arte di Carletti sta proprio in questo, nella linea del riguadagnare il remoto perduto, quando nella vertigine romantica dei ricordi – tra le ferite ineludibili che lasciano segni nel derma – si deposita il sale della vita.
Massimo Rossi Ruben